DI UNTORI E MORBI, TRA MARE TERRA E CIELO
A cura di Antonella Casula con la collaborazione di Ilaria Urgu e Rossella Tateo
L’umanità convive da sempre con le epidemie. Nell’Enciclopedia Treccani il termine epidemia - etimologicamente «che è nel popolo» - è definita come la «manifestazione collettiva di una malattia, per contagio diretto o indiretto, fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto, e si estingue dopo una durata più o meno lunga». La storia dell’umanità è infatti scandita, plasmata e in un certo senso contagiata dalle epidemie. Pandemie, endemie, pestilenze hanno un valore talmente impattante sulle popolazioni da poter essere paragonate alle guerre, alle rivoluzioni o alle crisi economiche. Il loro decorso influenza - in modo profondo - le relazioni tra gli individui lasciando segni indelebili e duraturi nella politica, nella società e nella cultura, come anche nella memoria collettiva e perciò nella identità popolare. Questa riflessione - quanto mai attuale per il periodo storico che stiamo vivendo - ci riporta alla memoria l’epidemia di peste che a partire dal 1346 coinvolse tutto il mondo allora conosciuto.
La peste nera, infatti, fu una vera e propria pandemia. Nata, forse nel 1346, nel nord della Cina, attraverso la Siria si diffuse in fasi successive alla Turchia asiatica ed europea per poi raggiungere la Grecia, l'Egitto e la penisola balcanica. Nel 1347 arrivò in Italia, prima in Sicilia e poi a Genova. L’anno dopo il contagio, dall’Italia, passò in Svizzera e poi nel resto d’Europa, Francia, Spagna, l’Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Dopo aver infettato tutta l'Europa, i focolai della malattia si ridussero fino a scomparire. Secondo le stime moderne, la peste nera uccise almeno un terzo della popolazione del Continente, provocando quasi 20 milioni di vittime e cambiando per sempre la storia. Quasi l'unanimità degli studiosi identifica la peste nera come un'infezione sostenuta da Yersinia pestis, batterio isolato nel 1894 e che si trasmette generalmente dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci. Se trattato in modo non adeguato, e nel XIV secolo non era conosciuto alcun modo per farlo, il morbo risulta letale dal 50% alla quasi totalità dei casi a seconda delle tragiche varianti della forma con cui si manifesta: quella bubbonica, la setticemica o quella polmonare.
A causa delle sue devastanti conseguenze demografiche la peste nera ebbe un forte impatto nella società del tempo: la popolazione in cerca di spiegazioni e rimedi arrivò talvolta a ritenere responsabili del contagio gli ebrei, dando luogo a persecuzioni e uccisioni; molti attribuirono l'epidemia alla volontà di Dio e di conseguenza nacquero diversi movimenti religiosi, tra cui uno dei più celebri fu quello dei flagellanti. Anche la cultura, le arti e le lettere furono influenzate da tanta tragedia, e con esiti esemplari, come quello di Giovanni Boccaccio e del suo Decameron, con i giovani fiorentini che erano fuggiti dalla città dell’Arno appestata, o del capolavoro manzoniano dei Promessi Sposi.
Giugno 1647: nei sobborghi di Valencia si manifestano i primi episodi di una pestilenza che verrà definita dagli storici «una tragedia mediterranea». La città iberica non era nuova a tali pandemie, che più volte la avevano infestata drammaticamente e ciclicamente, fin dal 1348, e ancora nella estate del 1519. Nonostante l’adozione di misure profilattiche e terapeutiche, in breve tempo il contagio si diffonde nei regni di Valencia e di Murcia raggiungendo gli abitati di Barcellona e Gerona fino ad invadere Aragona e Catalogna, dove le difficili condizioni politiche ed economiche ne facilitano ulteriormente la diffusione. In tali circostanze l’epidemia raggiunge anche la Sardegna, punto vulnerabile nel Mediterraneo occidentale, non solo perché prossimo alla Spagna, ma anche perché privo di difese sanitarie.
Nell’aprile del 1652 una tartana carica di mercanzie parte da Tarragona diretta ad Alghero. Nessun controllo sanitario viene operato alla partenza e tantomeno all’arrivo: il veguer e il giurato capo della città si fanno corrompere e danno libero accesso alla nave priva di patenti di sanità.
Quella stessa pestilenza non risparmierà i Campidani di Oristano e la comunità arborense. Le attestazioni di questa pagina di storia sono conservate nelle carte dell’unità n. 347 della Sezione Antica dell'Archivio civico: documentano una vicenda drammatica che proponiamo alla curiosità del lettore on line e come spunto per ulteriori approfondimenti di studio e ricerca.
Il 5 giugno del 1652 il viceré, Pedro Martinez Rubio, informa città e baronie, contrade e ville del Regno che a l’Alguer il morbo si sta propagando. E numerosi saranno i casi di contagio nella comunità catalana.
Le disposizioni per contrastare l’epidemia furono immediate e molto rigide trattandosi di fatto di una messa in quarantena. A nessuno fu permesso muoversi dalla propria abitazione o dalla propria villa, e quanti, per motivi di comprovata necessità, si fossero trovati nella condizione di doversi spostare sul territorio, avrebbero dovuto munirsi di un certificato di salute. Nel documento doveva essere chiaramente riportato il luogo di partenza e quello di destinazione. Senza il lascia passare a nessuno era consentito attraversare i territori di pertinenza di altre ville prescrivendo perciò il rientro immediato nella villa o città di provenienza.
Alle autorità - vicari, podestà, ufficiali, luogotenenti e scrivani - spettava l’onere di inviare, con cadenza settimanale, un rapporto con il numero di ammalati e il computo dei morti specificandone i motivi del decesso: i contravventori di quegli stessi ordini avrebbero pagato con la pena stabilita, comminata mediante un severo castigo corporale.
Per far fronte all’emergenza si insediò la Junta del morbo, un consesso formato dalle più alte gerarchie isolane, chiamato a predisporre un piano sanitario e ad adottare i provvedimenti indispensabili a garantire il controllo su quasi tutti i territori del Regno. Anche le magistrature civiche oristanesi - in ottemperanza alle disposizioni viceregie e della Junta - procedettero perciò al controllo capillare su chiunque volesse raggiungere la Città e i territori limitrofi.
Il 16 giugno 1652 è lo stesso vicerè Pedro Mertinez Rubio a dare indicazioni precise ai consiglieri della Città in merito alle misure da adottarsi nei confronti del medico Galcerìno, bloccato dalle guardie della villa di Riola, in quanto proveniente da una zona infetta. Questi avrebbe potuto attraversare il Campidano, senza varcare i confini di nessuna villa o luogo popolato, e in ogni caso senza avere contatti con alcuno. Inoltre, per garantire l’osservanza delle prescrizioni, e quindi evitare la diffusione del morbo, allo stesso sanitario fu assegnata una scorta formata da sei guardie a cavallo che disponendosi in pariglia - tre davanti e tre alle spalle del medico – avrebbero assicurato il rispetto della distanza pari a mezza miglia. La comitiva avrebbe quindi raggiunto il castello di San Michele sostandovi durante l’intera quarantena.
Con successiva missiva, il 28 giugno il vicerè informava i Consiglieri di come il Conte di Sedilo – con molta probabilità Don Bernardino de Cervellon - esponente di rilievo dell’aristocrazia sarda, unitamente ad altri nobili provenienti da Sassari, avesse raggiunto Busachi. E ciò in barba alle misure stabilite per il contenimento dell’epidemia. Per evitare che altri potessero seguire questo criminale esempio - mettendo ulteriormente a rischio la salute pubblica - si dava ordine che le guardie stanziate nei punti strategici sul territorio che non permettessero il passaggio di nessun individuo - o nessuna robes ni altre qualsevol sort de cosa proveniente da quella villa - fino alla cessazione della quarantena. In tali frangenti dalla sede del governo furono inviati ben ottocento certificati di salute, seicento dei quali destinati ai Campidani di Oristano. Detti salvacondotti consentono di dimensionare indirettamente la portata del pericolo epidemiologico a fronte delle esigenze quotidiane: il possesso del «lasciapassare» fu infatti indispensabile a chiunque - per comprovate necessità - si fosse trovato a dover lasciare la Città per raggiungere Cagliari o qualsivoglia altra destinazione.